Quando l’empatia alimenta la speranza

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Che l’essere umano abbia una intrinseca struttura relazionale è ormai cosa assodata, in filosofia come in tutte le scienze. L’identità̀ non appare più un’essenza da analizzare e definire, ma la risultante sempre in atto di processi di decodificazione delle relazioni interpersonali. Per prendere coscienza della propria identità, infatti, occorre confrontarsi con l’altro dall’io, come nella pagina biblica quando si parla di Eva di fronte ad Adamo (non tanto “aiuto” quanto: “di fronte”, un altro che ti conferma e ti contesta). Una persona può conoscersi soltanto se si riconosce in un'altra persona e dunque non può rispondere alla domanda ‘chi sono io’, se non ripercorrendo il movimento nel quale, relazionandosi al tu sin dal seno materno, cresce nella conoscenza di sé e degli altri, in un processo aperto lungo tutto il corso della vita.

Ponendo l’accento sull’empatia, si mette in evidenza la modalità con cui si entra in contatto con gli altri: si tratta di cogliere il loro vissuto così come essi lo percepiscono: “Cerco di sentire e capire ciò che tu stai vivendo”.  Si soddisfa dunque l’esigenza di connettersi non solo affidandosi ai social, bensì seguendo percorsi diretti, emotivi (vicinanza, calore umano) e cognitivi (cercare di vedere le cose come l’altro le vede, capire quello che sta pensando o provando).

L’empatia ha un ruolo centrale nello sviluppo delle persone nella loro integralità, nel loro ruolo nel mondo, nei processi sociali.  Il suo potenziale rigenerativo non può essere trascurato senza con ciò minare la stessa convivenza umana.  Coinvolge anche la spiritualità che, in qualunque forma o religione venga vissuta, garantisce l’autonoma dell’io e la fratellanza e dunque contribuisce a orientare le relazioni interpersonali al bene di entrambi. Sta ciascuno il compito di stabilire rapporti più o meno soddisfacenti tra riconoscimento dell’uguaglianza e differenza in un equilibrio fragile che richiede consapevolezza critica dei rischi possibili. Proviamo a focalizzarne alcuni.

Mancata differenziazione tra sé e l’altro. Anche se possiamo comprendere e condividere le esperienze altrui, non è possibile viverle allo stesso modo. L’altro rimane altro, perché radicato autonomamente in Dio. Edith Stein, che ha approfondito il tema dell’empatia, non ha mai cambiato opinione: ciò che vive l’altro lo si può intuire, ma non vivere nel modo in cui lo vive l’altro. 

Empatia per eccesso. All’opposto della tendenza a sovrastare l’altro, l’eccesso di empatia può spingere a “fondersi” e con-fondersi, annullando i propri punti di vista e la propria identità (cf. Donne che amano troppo di R. Norwood). Nel caso di un terapeuta, se è troppo accomodante non è più in grado di aiutare. Lo stesso vale per genitori ed educatori. Infatti: “Dire che ami una persona quando non ami te stessa è lo stesso come se una persona nuda ti offrisse una camicia” (Maya Angelou). La “ri-presentazione” dell’esperienza altrui, dopo essere usciti da sé, dovrebbe far tornare a sé stessi arricchiti nella propria identità e salvaguardare le differenze e nel profondo le vocazioni. Dal punto di vista storico, bisogna riconoscere che nel mondo occidentale un ruolo speciale l’ha svolto il cristianesimo nella difesa dell’altro, data la diretta figliolanza di ciascuno da Dio e dunque il rispetto della libera scelta di vita, affrancando specialmente le ragazze dalle imposizioni della famiglia e del clan.

Distorsione degli schemi conoscitivi. Tutti utilizziamo schemi mentali indispensabili a ridurre la complessità. Infatti assembliamo i dati dell’esperienza – oggetti, persone, situazioni – in modo da costruire categorie guida che selezionano le informazioni, le rievocano all’occorrenza e completano quelle mancanti. Tali schemi, tuttavia, tendono ad auto-confermarsi, a cristallizzarsi in stereotipi a difesa del proprio gruppo e inquinare la disposizione empatica con discriminazioni mentali e comportamentali.

Conclusioni affrettate. L’empatia rifugge da conclusioni affrettate. Ostacoli e incomprensioni non giustificano il rifiuto di continuare a cercare. È grazie a questa apertura che si arricchisce il patrimonio culturale collettivo. Nessuno può̀ dire l’ultima parola sull’altro; se si elaborano definizioni in cui l’altro non si riconosce, bisogna disporsi a essere contraddetti, a fare all’occorrenza un passo indietro e modificare il tiro delle affermazioni. L’empatia esige un orizzonte che non è aprioristicamente conflittuale né artificiosamente irenico, aperto com’è a sempre nuove comprensioni che modificano al contempo l’io, il tu e la realtà stessa. 

Riduzione genetica. Tenendo conto degli studi recenti sui “neuroni specchio” (di G.Rizzolatti), vi sono cellule che si attivano sia quando un’azione viene effettuata da un individuo, sia quando questi osserva la stessa azione effettuata da un altro. Se si accentua l’importanza dei neuroni specchio, l’empatia è intesa come parte del corredo genetico della specie, col rischio di sottovalutare il riferimento all’etica e dunque il peso della responsabilità personale.

Possibili contaminazioni. L’empatia può suscitare azioni altruistiche, ma non è immune da egoismi nascosti: aspettative di ricambio di sentimenti, di doni, fuga da punizioni. Non s’identifica neanche col comportamento morale in quanto conformità a regole sociali, religiose o kantiane, che s’impongono dall’esterno forzando al bene. Infatti tali regole, in determinate circostanze, possonoostacolare il processo di empatia verso il novum che l’altro rappresenta, salvo tener fede alla regola d’oro: “Fa agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”. È d’uopo la distinzione tra la morale, codificata socialmente e religiosamente, e l’ethos che indica ‘abitare la casa’, dunque un comportamento che accompagna le attitudini della persona pur favorendo un certo autocontrollo affettivo e cognitivo.

Reciprocità. L’empatia, nel ricercare la migliore armonia possibile tra l’io e il tu, poggia sumediazioni, ossia quei canali condivisi e oggettivi di cui i due si servono per entrare in relazione e per consolidarla. Può trattarsi di gesti muti, linguaggi (ciascuno ‘prende la parola’), tecnologie, istituzioni. Si tratta di una terza realtà che unisce senza sopraffare, il che vale nella musica con la triade dell’armonia tonale, come nelle relazioni interpersonali e tra gli Stati. P. Ricoeur ha sottolineato l’importanza delle istituzioni: le buone relazioni non si fermino ‘al caminetto’ e trascurino quel terzo che consente all’empatia di raggiungere anche persone lontane e sconosciute, con cui non sarà forse mai possibile stabilire rapporti amicali, ma che sono ugualmente destinatarie del riconoscimento umano.  La reciprocità è la molla che sollecita all’impegno contro le ingiustizie, l’oppressione, la diseguale ripartizione delle risorse per realizzare istituzioni il più giuste possibili.

Fiducia rinnovata. L’investimento di fiducia nell’altro è indispensabile a riaprire i rapporti, quando l’altro è fonte di sofferenza e delusioni. Il colpevole può percepire di essere compreso e ancora degno di fiducia. Come dirgli: “Sono convinto che tu vali più di quello che hai fatto” (Ricoeur1). Don Bosco: “Non basta amare i giovani, bisogna che lo sappiano” che rispondano (“Amor ch’a nullo amato amar perdona”). Quando il comportamento empatico genera questo andirivieni di atteggiamenti positivi rinnova i rapporti e rigenera la speranza.

  1.  Cfr. P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, il Mulino, Bologna 2012. Per approfondire cf. A. Danese, L’io dell’altro. Confronto con Paul Ricoeur, Marietti, Genova 1993. ↩︎

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