Qui noi siamo famiglia!

Ema

Mi chiamo Ema Pizarro, FMA di origine Argentina, missionaria in Africa nell’Ispettoria “Nostra Signora della Speranza” (AFE) formata da tre Paesi: Kenya, Tanzania, Rwanda, dove sono arrivata nel 1985. Eravamo quattro FMA argentine a Rulindo, nella parrocchia dei padri Bianchi, i Missionari d’Africa di Mons. Charles Lavigerie. Abbiamo subito cominciato a imparare la lingua, il kinyarwanda, una lingua molto difficile, ma bellissima, una lingua musicale e noi non avevamo tanto orecchio. Il popolo rwandese è un popolo simpaticissimo. Alle bambine basta un gesto, un sorriso, un niente e sono già vicino a te e cominciano a parlare. Prima ti guardano e dopo cominciano subito a fare domande, che allora non comprendevamo. Poco a poco siamo state in grado di comprendere e parlare con loro. Stavamo ogni giorno con i bambini, con le giovani fino alle ore 17:00 perché poi tutti dovevano tornare a casa, abitavano lontano. Abbiamo iniziato la formazione con la catechesi e l’alfabetizzazione. Facevamo tutto quello che potevamo. È stato un periodo molto bello, ho tantissimi ricordi. La parrocchia, la gente di Rulindo è rimasta sempre nel mio cuore: simpatica, fraterna, una comunità veramente cristiana, grazie al buon lavoro dei padri bianchi.

Nel Centro di pastorale facevamo un lavoro che fa ridere: aiutare l’operaio a preparare gli alimenti per distribuirli quando la gente veniva per la formazione: stabilire quanti chili di patate dovevamo dare, quanti fagioli… insomma, la giornata si passava sempre fuori con la gente.

Ho imparato a conoscere un poco la lingua e soprattutto a entrare nella cultura rwandese. Vicino a noi c’erano le suore della Congregazione Bizeramaria, le prime suore native del Rwanda, che ci hanno aiutato tanto a comprendere la cultura, a vedere cosa potevamo fare, cosa non dovevamo fare, cosa il popolo vedeva bene e cosa no. Così per sette anni; poi è scoppiata la terribile guerra. Io in quel momento mi trovavo in Argentina, le altre suore sono state obbligate a partire, salvo Suor Marie Claire Mwenya, congolese, che è stata meravigliosa. La casa della capitale era un internato per studenti. Le ragazze erano appena tornate, dopo la Pasqua, per ricominciare il secondo trimestre di scuola, ma è scoppiata la guerra. Marie Claire è rimasta con le giovani fino a quando non sono riuscite a raggiungere con molta difficoltà le loro famiglie. Diceva: “Chi si occupa di loro? Fino a quando le ragazze non saranno a casa, io non parto”. E così è rimasta da aprile a luglio, con tanti rischi e pericoli perché la guerra era davvero terribile. È riuscita a portare tutte le ragazze in famiglia, nei diversi villaggi, grazie all’aiuto della Croce Rossa.

Non potendo tornare in Rwanda sono andata in Congo per raggiungere le altre suore congolesi e, dopo tre mesi, siamo state inviate al campo dei rifugiati, dove c’erano milioni di persone rwandesi. Ero veramente contenta di stare con loro perché, come amiamo le persone quando stanno bene, non possiamo abbandonarle quando soffrono.

Siamo state lì quasi due anni. Che miseria! Vivevano ai piedi di un vulcano, su un terreno di pietre vulcaniche, pieno di serpenti e animali di ogni specie, in una “casetta” fatta di quattro pali fissati nel terreno con intorno e per tetto dei pezzi di plastica. Si rifugiavano qui soprattutto di notte perché faceva molto freddo, mentre di giorno faceva molto caldo. Non si può immaginare come viveva questa gente!

Noi abbiamo insegnato a cucire, un poco di cucina, tante altre cose utili alle ragazze. E abbiamo fatto anche l’oratorio, un oratorio immensamente grande, tanti giovani ci hanno aiutato. È stato un tempo molto bello, soprattutto per bambini e giovani, ma è arrivato il momento in cui ci hanno mandato via. Suor Marie Claire, grazie alla Caritas internazionale, è andata a Lubumbashi e io sono rimasta con il gruppo perché non ero congolese. Poi ci hanno mandato via in un aereo che non aveva sedie, ma corde come un’amaca, ci siamo sistemati come meglio potevamo. Sono arrivata in Kenya, le suore mi hanno cercato e sono rimasta una settimana con loro pensando di ritornare in Rwanda. In quei giorni ha chiamato la cara madre Marinella Castagno per chiederci cosa volevamo fare e io ho risposto che volevo ritornare in Rwanda. Allora ci ha raccomandato di comunicare continuamente con lei per farle sapere i nostri spostamenti. Io sono riuscita a ottenere il visto perché la mia nazionalità argentina era neutra per il governo e quando mi sono resa conto che i rifugiati cominciavano a rientrare, sono partita per il Rwanda. Con Suor Lumière Luce, rwandese, abbiamo ripreso la casa e ci siamo occupate dei bambini abbandonati che avevano perso tutto. Cercavamo di farli stare tranquilli, di calmarli, perché poverini piangevano, gridavano, era uno squilibrio totale. A poco a poco si sono calmati e pensavo sempre a don Bosco, allo spirito di famiglia. Ripetevamo sempre “qui noi siamo famiglia”, abbiamo la mamma, la Vergine che è sempre con noi, Gesù è con noi, noi siamo famiglia. E questo ha dato loro coraggio. C’erano un bambino e una bambina di soli due anni, contenti perché non erano più orfani, avevano una famiglia e così sono cresciuti con noi, serenamente. Il vescovo della diocesi di Nyundo, ci ha chiesto di occuparci, nella parrocchia di Muhato, delle donne e delle ragazze che ritornavano della guerra, nella città di Gisenyi, alla frontiera con il Congo. Con Suor Lumière abbiamo cominciato ad occuparci di questa povera gente. Venivano soprattutto mamme, nonne, bambine. A poco a poco abbiamo potuto costruire una bellissima scuola tecnica, grazie a un organismo della Spagna, Manos Unidas. Oggi è una scuola molto apprezzata, che offre un’ottima preparazione, con professori eccellenti. La direttrice è una bravissima giovane rwandese, che ha dato alla scuola uno stile veramente salesiano.

Alle nuove generazioni di missionarie raccomando il rispetto e l’amore per ogni cultura, senza criticarla e paragonarla ad altre. Ogni cultura è differente, ma ciascuna ha tanto di buono. Anche imparare la lingua è importantissimo per poter dialogare più in profondità. Quando la polizia ci ferma per strada, se salutiamo in francese o inglese sono molto formali, chiedono i documenti con molta serietà. Se salutiamo in kinyarwanda cambiano subito espressione. Chiedono comunque i documenti, ma con molto affetto.

Nella mia esperienza di missionaria ho sofferto molto il distacco dalla famiglia, dalle suore della mia ispettoria, ma sono stata sempre felice. Se il Signore chiama non si può dire di no e la famiglia, l’ispettrice non possono impedire a una suora di andare in missione.

Videointervista integrale

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