Per costruire scenari di pace per il futuro, come sosteneva Ernesto Balducci nel 1984 parlando in una rubrica radiofonica dei suoi “pensieri di pace”, bisogna “agire la pace in tempo di guerra”, cioè nel contesto concreto dell’oggi, agendo “in situazione”. Ciò significa ricercare e attuare scelte di pace sia a livello di etica personale che di scelte politiche nazionali e internazionali. E tali scelte dovranno avere la forza di trasformarsi in azione concreta e quotidiana.
Balducci, ispirandosi a Gandhi osava dire che dalla spaventosa tragedia provocata dalla bomba atomica bisogna imparare che la violenza non può essere eliminata dalla violenza e che l’essere umano può liberarsi dalla violenza solo ricorrendo alla non-violenza. In altre parole, l’odio può essere sconfitto solo dall’amore e con l’amore. Ma ciò deve tradursi in operatività, in una progettazione politica operativa: “Questo è il nostro compito… che l’amore sia destinato a essere la forza unica che costruisce la storia è una certezza che si identifica con la speranza elementare della sopravvivenza”.
In questa stessa linea Papa Francesco, indicando la solidarietà e la comunione nelle differenze come «uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita», invita al «coraggio di andare oltre la superficie conflittuale» e a costruire l’amicizia sociale, secondo il principio che l’unità è superiore al conflitto (EG 228).
Se si osserva con attenzione ciò che si sta muovendo all’interno del panorama sociopolitico e culturale della società contemporanea non si può fare a meno di rilevare una significativa contrapposizione tra ciò che emerge dalla realtà, così come viene narrata dalla comunicazione sociale, e alcune tendenze che si riscontrano nei vissuti psicologici delle persone in seguito alla prepotente irruzione delle complesse questioni legate alla guerra, ormai amplificata a raggio mondiale e agli approcci richiesti per una loro positiva risoluzione alla ricerca di una pace ‘giusta’ e duratura. Questa antitesi incide in maniera rilevante sul modo di immaginare il mondo di domani e sulla scelta degli strumenti e delle strategie più idonee per costruirlo con efficacia. Ci si domanda allora: è sufficiente la testimonianza come strumento di pace, come via per risolvere i conflitti? Non sarebbe opportuno approfondire la comprensione dei conflitti per contribuire alla loro trasformazione da ‘distruttivi’ a ‘costruttivi’? E qui è chiamata in causa l’educazione e la formazione ad ogni livello.
Il conflitto: problema o risorsa?
Il conflitto comunemente viene ritenuto un problema, come qualcosa che va evitato, che produce sofferenza e che deve essere risolto quanto prima. Pur sapendo che i conflitti sono eventi quotidiani e comuni nella vita di ciascuno e nella dinamica delle relazioni di gruppo o di comunità, tuttavia pensiamo che essi siano comunque generatori di violenza, perché si fondano sulla logica ‘bellica’ dell’amico/nemico che conduce a una degenerazione dell’esperienza conflittuale sempre carica di emotività e di tensioni.
Il conflitto, quando a livello di esperienza personale viene vissuto covandolo dentro di sé, rischia di esplodere improvvisamente, attivando sensi di colpa e tensioni relazionali che a loro volta incrementano negli altri reazioni di legittima difesa o di scarica impulsiva.
Come si possono costruire le condizioni di un vivere comune malgrado il conflitto o addirittura attraverso il conflitto, mettendo da parte il sogno o l’illusione di voler eliminare tutto ciò che risulta “ingovernabile”. In altre parole, come accettare il conflitto o la dialetticità del contrasto presente nelle diverse forme sociali con cui si manifesta tra gli individui?
Il conflitto e le sue molteplici forme, fino al conflitto armato, può divenire un automatismo, quando le persone, le comunità o i gruppi non hanno realizzato dentro di sé un cammino di liberazione dall’odio, dalla paura o dalla rabbia, dal sospetto o dalla diffidenza nei confronti dell’altro e degli altri. Ciascuno di noi, infatti, può contribuire anche senza volerlo a creare un clima relazionale conflittuale se non riconosce che il germe dell’odio, della contrapposizione violenta esiste anche dentro di noi. L’automatismo del conflitto va interrotto, mediante il superamento a livello emozionale dell’individualismo e della ribellione e soprattutto mediante la ricerca attiva di soluzioni che possano sbloccare la situazione.
Pur riconoscendo la complessità storica e culturale di quei paesi devastati dalla follia della guerra, chi cerca di costruire la pace dovrà necessariamente lavorare per immaginare soluzioni terze che la diplomazia ritiene in grado di salvaguardare la dignità e i diritti fondamentali delle parti in causa. In tal senso, diventa cruciale la figura del mediatore come funzione integrativa del conflitto.
È possibile imparare dai conflitti?
Il conflitto non è altro che una modalità di relazione umana che non sempre, come erroneamente si pensa, genera scontro o violenza. La diversità e l’alterità dell’altro nelle relazioni sono una dimensione costitutiva di ogni interazione umana e in quanto tale attivano dinamiche di incontro e di scontro che, se da una parte arricchiscono, dall’altra se non vengono gestite in modo armonico, efficace e costruttivo, danno adito a esperienze conflittuali dalle quali talvolta è difficile uscirne. Come diceva Madeleine Delbrêl: “Impara l’arte della guerra con te e l’arte della pace con gli altri”. Per combattere efficacemente la tendenza alla conflittualità, radice di ogni guerra, è indispensabile apprendere a vincere il male e il conflitto che vive dentro di noi. È necessario, cioè, imparare a conoscere e a riconoscere il conflitto, come pure a conoscere noi stessi in tali dinamiche che si verificano sia nella vita di coppia, sia in famiglia, specie quando sopraggiungono delle contrarietà, sia nel lavoro come nella convivenza sociale, nella vita comunitaria, specie in ambienti multiculturali e interculturali, nell’ambito educativo e formativo.
Spesso ci si scontra quando non si comunica, o perché non ci si conosce o perché la comunicazione è carente, poco chiara e ambivalente. Ciò genera chiusura, diffidenza e ostilità, paura, sospetto e sfiducia. Di fatto, ogni conflitto è come la punta di un iceberg che si basa su una lunga storia di esperienze relazionali non positive, di dipendenza eccessiva o di profonda delusione, soffocanti o tossiche, di incomprensioni o pregiudizi.
In tali situazioni, sia a livello personale e interpersonale sia al livello di gruppi, di comunità e di popoli, basta una scintilla per provocare una ‘guerra’. E questo non accadrebbe se alla base ci fosse un clima amichevole, fraterno, di reciproca fiducia, rispettoso delle differenze.
Quanto avviene nella comunicazione tra le persone (microsociale) si verifica a livello di interazione tra popoli e stati, ma anche a livello dei rapporti quotidiani nei diversi ambiti della vita, del lavoro, della famiglia, dello sport, della politica… (macrosociale). Si costata, infatti, come questa diffusa conflittualità sia divenuta il clima sociale e culturale che respiriamo nell’attuale difficile momento storico.
L’importanza della comunicazione nella genesi e nell’evoluzione dei conflitti è abbastanza nota. Basti pensare alla sua funzione degenerativa se la comunicazione è carente o male impostata, alla sua funzione preventiva e terapeutica (trasformativa) se essa è efficacemente presente e bene impostata. Si comprende allora quanto sia cruciale e rilevante il ruolo dei media, che anziché essere operatori e strumenti di pace possono essere amplificatori dei conflitti perché incrementano antagonismi, contrapposizioni e prevaricazioni spesso all’origine dei conflitti. Ma la comunicazione, tenendo conto del suo significato terminologico, è l’opposto della lotta, del combattimento o dell’attacco prevaricatore: cum (con, insieme), munia (doveri, vincoli), indica appunto l’istanza dell’essere legati insieme, l’essere in connessione e in collegamento con dei doveri e dei vincoli comuni che ci accomunano.
Concludo, richiamando la riflessione del card. Martini sulla matrice delle violenze che anche oggi si scatenano in tante parti del mondo. Tornato da Gerusalemme dopo l’attentato del 19 agosto 2003, parlò degli idoli più radicati negli animi e più duri a morire, “gli idoli della violenza, della vendetta, del potere (politico, militare, economico…) sentito come risorsa definitiva e ultima. È l’idolo del voler stravincere in tutto, del non voler cedere in nulla, del non accettare nessuna di quelle soluzioni in cui ciascuno sia disposto a perdere qualche cosa in vista di un bene complessivo» (Corriere della sera, 27-8-2003). Da qui «l’appello a disarmare gli animi armando la ragione». Disarmarsi da questi idoli agli occhi di molti è un segno di debolezza ma in realtà è un passo verso un’esistenza liberata da falsi valori che può essere vissuta come seme di pace e riconciliazione.
Ancora più significativa è la vibrante testimonianza di Atenagora I (1886-1972), Patriarca ortodosso di Costantinopoli, che ci sollecita a disarmarci, ad abbandonare la logica dello scontro, a deporre la smania di averla sempre vinta.
«Bisogna fare la guerra più dura, che è la guerra contro noi stessi. Occorre giungere a disarmarsi. Ho condotto questa guerra per anni. È stata terribile. Ma sono disarmato. Sono disarmato dal voler avere ragione, dal cercare di giustificarmi screditando gli altri. Accolgo e condivido. Non mi aggrappo particolarmente alle mie idee, ai miei progetti […]. Se ci si disarma, se ci si spossessa, se ci si apre al Dio Uomo che fa nuove tutte le cose, allora Egli cancella il passato negativo e ci consegna un tempo nuovo in cui tutto è possibile».
Pina Del Core, FMA
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