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Martedì, 15 Febbraio 2022 07:56

Fratellino

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Non è un romanzo né una storiella da leggere con leggerezza. “Fratellino” è una testimonianza autobiografica. La storia dei polverosi scenari africani che fa immergere con forza nella quotidianità difficile e provante che vivono i suoi abitanti.

 

 La potenza del linguaggio

Ibrahima Balde, autore e protagonista del testo, è un ragazzo nato in Guinea; il suo racconto è stato messo per iscritto da Amets Arzallus Antia, giornalista basco, con voce pura, potentissima, senza contaminare nulla della vita di Ibrahima, infatti nel testo non è presente nessun artificio retorico, metafora o costruzione letteraria. Le parole sono senza traduzione in quanto ognuna appartiene ad un mondo particolare e tradurle significherebbe tradirle; è questo che consente di restare fedele alla storia, alle lingue, alla voce interiore. Dietro gli sbarchi non ci sono numeri, nomi, storie identiche una all’altra. Ci sono uomini, donne e bambini. C’è chiunque stia leggendo.

“Fratellino” è una storia che ha una rilevanza notevole, con una lingua viva Antia scrive la testimonianza orale di Ibrahima: ne riporta fedelmente le pause, le ripetizioni, le esitazioni e i ripensamenti. Il suo intento è quello sottolineare l’autenticità del racconto rendendo i suoi interventi minimi e impercettibili. È il lettore che comunica direttamente con Ibrahima; il giornalista è solo la mediazione di cui il ragazzo si è servito per far conoscere la sua storia. In questo modo si viene spinti naturalmente ad una lettura fortemente empatica, assolutamente necessaria per abbattere i pregiudizi, i luoghi comuni troppe volte ripetuti senza un personale senso critico, né una previa riflessione.

Il libro è la cronaca lucida ed essenziale della vita di Ibrahima Balde, è una voce che fa comprendere, senza vittimismo, ma in tutta la sua drammaticità, il significato vero della traversata del deserto, il traffico dei migranti, la prigionia, le torture, la violenza della polizia, il viaggio in mare, la morte. Una voce ferma, chiara e profonda, da diventare a tratti poetica e racconta che cosa si prova quando si conosce la sete, la fame, la sofferenza. Esistono svariati motivi e storie che portano una persona ad attraversare il Mediterraneo per cercare di raggiungere l’Europa. La disumanizzazione delle loro morti, le espulsioni, le vite illegali sembrano necessarie per alimentare l’indifferenza. In realtà ognuna di queste vite è unica e universale e questo racconto ne è la testimonianza.

Ibrahima diventa il capofamiglia dopo la morte del padre in quanto è il maggiore dei suoi fratelli, deve provvedere sia al loro sostentamento sia a quello della madre, ma è lui stesso un bambino: ha solo 13 anni. Nonostante ciò, abbandona la scuola; glielo hanno insegnato: è lui adesso che deve farsi carico dell’enorme responsabilità di dover far sopravvivere e far andare a scuola il suo fratellino, Alhassane, il quale però non è dello stesso parere infatti, mentre Ibrahima è lontano, decide di andarsene e di tentare la sua fortuna altrove.

Ibrahima inizierà a cercarlo disperatamente, fino a giungere ad uno degli Stati più pericolosi per un giovane africano perché ha saputo che vi è stato il fratello; un viaggio lunghissimo ed estenuante porterà Ibrahima in Libia, in “un altro mondo. Fatto per soffrire”, dove “tutti i torturatori erano civili, non militari, gente come me e te. Anche i torturati, uomini e donne, erano gente come me. Nessuno aveva fatto niente per trovarsi lì. Io ero andato in Libia a cercare il mio fratellino, tutti gli altri con il sogno di un programma per l’Europa. Ma a quelli che ti torturavano tutto questo non interessava”.

 

“Un libro che ci porta in un altro mondo, con costumi, popoli, linguaggi e paesaggi diversi, 
che ci racconta una storia che pensiamo di conoscere ma che in realtà non riusciamo neanche a immaginare”.

 

Mettere le ali al proprio spirito

La preghiera è il filo rosso che guida il giovane, egli prega perché il suo destino possa risolversi nel migliore dei modi ma la risposta alle sue preghiere è il dolore. Un dolore viscerale, profondo, che abbraccia corpo e cuore, d’altro canto quando si diventa responsabili della propria famiglia a 13 anni il fallimento diventa ancora più difficile da sopportare e la sofferenza talmente intensa da indurre Ibrahima a voler morire. “Non sapevo che cosa volevo. È difficile da spiegare, soprattutto a te, che non hai vissuto questo e non conosci la Libia”. Il ragazzo afferma di essere stato così tanto divorato dal dolore da vedere il suo spirito “volare via”, lasciando di lui un mero involucro, ma per gli altri è impazzito: nella vita reale come nella narrativa la profondità del dolore è quasi sempre sinonimo di pazzia. Il giovane è vissuto per vari mesi in una foresta, un’esperienza che, nella sua durezza, gli ha fatto comprendere che in effetti ce n’è sempre un’altra, “quella che non si vede, quella che ognuno porta dentro di sé e nella quale la coscienza non si può eludere”. Quella di Ibrahima, giudicata malattia mentale dagli altri, è la consapevolezza di un destino cambiato senza che egli lo volesse: andare alla ricerca del fratello piccolo, partito con l'intenzione di raggiungere l'Europa, lasciare la Guinea, il lavoro di apprendista camionista, per intraprendere un viaggio che non aveva intenzione di fare; ma questo è comune a migliaia di africani. Cercare Alhassane, trovarlo per “parlargli a lungo, anche con gli occhi. Così le parole non cadono”, questo il desiderio di Ibrahima, il significato di ogni sofferenza vissuta contro il proprio volere.

Come posso vivere con questa mia vita?”, si è chiesto Ibrahima; la risposta gli è giunta dal ricordo di quanto gli diceva il padre: “Tu sarai sempre in mezzo, ci sarà sempre qualcuno davanti a te che e qualcuno dietro di te. La vita è così e non puoi mai dire: io soffro più degli altri”. 

È così che il ragazzo ha sentito ritornare il proprio spirito e, mettendogli le ali, è ritornato a vivere. Molti dovrebbero leggere “Fratellino”, una storia che in Africa non è di nessuna eccezionalità in quanto è la regola ma, proprio perché lo è ed è raccontata da Ibrahima, potrebbe abbattere il muro di indifferenza, sortire un cambiamento mentale ed affettivo.

 

“Chi non vede il fratello nella notte, nella notte non può vedere se stesso” (Tagore)

 

Emilia di Massimo 
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