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Venerdì, 15 Gennaio 2021 08:43

Fecondità, cifra di una vita

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La maggior parte delle persone ancora oggi, sentendo la parola fecondità, pensa esclusivamente ai figli naturali. Eppure di questi tempi per le nuove generazioni procreare non è scontato, a causa del prolungarsi degli studi, della non facile ricerca di un’autonomia economica, della tendenza a rimandare l’impegno del matrimonio. Troppe giovani donne scoprono tardi che è già passato il tempo della fecondità naturale. Alcune accettano di buon grado l’impedimento dell’età, altre sono determinate ad essere childfree, molte infine si mettono in fila per tentare di avere un figlio in qualunque modo e a qualunque costo. Sembra, perciò, urgente diffondere una cultura che ampli il senso e il vissuto della fecondità e trasmetta il concetto di generatività come cifra di una vita.

 

Nel nucleo della generatività umana c’è il codice materno, come capacità di amare e soffrire per qualcuno, perché sia pienamente se stesso. La persona che sa amare realizza se stessa anche se è la più sconosciuta e ininfluente del mondo, perché l’amore genera frutti positivi tutto attorno. Nell’enciclica “Fratelli tutti” Papa Francesco pone l’accento sull’amore agli sconosciuti e dichiara beato colui che ama il prossimo “lontano da lui o accanto a lui”. Egli chiede «di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona, al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita» (Papa Francesco, Lettera Enciclica Fratelli tutti. Sulla fraternità e amicizia sociale, Città del Vaticano - Roma, 2020, n. 1). Indica San Francesco come modello di amore universale: «Francesco non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio. Aveva compreso che Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (FT, 4).

Per i fidanzati e gli sposi tuttavia può essere non sempre facile comprendere come il comando all’amore universale si coniughi con la scelta che il matrimonio impone di dedicare la propria vita in primis ad una singola persona. È convinzione diffusa che la capacità di un amore universale sia prerogativa di chi sceglie la consacrazione verginale o il sacerdozio mentre, al contrario, chi si sposa, sarebbe impossibilitato ad amare tutti e di conseguenza tenderebbe a rinchiudersi nel circuito della coppia, dei figli, delle famiglie d’origine, a ripiegare nel caldo degli affetti più sicuri occupandosi prevalentemente dei propri interessi e chiudendo le porte agli ‘estranei’, ai non consanguinei e agli sconosciuti. È ciò che il popolo bolla con l’espressione “Due cuori e una capanna”.

Amore universale

«[…] Non posso ridurre la mia vita alla relazione con un piccolo gruppo e nemmeno alla mia famiglia, perché è impossibile capire me stesso senza un tessuto più ampio di relazioni. La mia relazione con una persona che stimo non può ignorare che quella persona non vive solo per la sua relazione con me, né io vivo soltanto rapportandomi con lei. La nostra relazione, se è sana e autentica, ci apre agli altri che ci fanno crescere e ci arricchiscono» (FT, 89). Il Papa mette in guardia da una sorta di egoismo di gruppo: «Il legame di coppia e di amicizia è orientato ad aprire il cuore attorno a sé, a renderci capaci di uscire da noi stessi fino ad accogliere tutti. I gruppi chiusi e le coppie autoreferenziali, che si costituiscono come un “noi” contrapposto al mondo intero, di solito sono forme idealizzate di egoismo e di mera autoprotezione» (FT, 89).

Del resto dopo i primi tempi dell’innamoramento, la coppia constata che la chiusura agli altri inquina sino a spegnere l’amore stesso. È anche vero però che l’amore indiscriminato per tutti può essere poco saggio e far degradare una comunità in agglomerato, azienda, massa. Se il rischio della coppia è di ripiegare su di sé, quello dell’amare tutti è di amare superficialmente e a parole.

L’amore non si valuta in base alla quantità di persone che raggiunge. Simone Weil ha approfondito questo aspetto opponendosi alla sottovalutazione dell’amore amicale e coniugale solo perché si dirige ad un singolo tu. «L'amicizia consiste nell'amare un essere umano come si vorrebbe poter amare in particolare ciascuno di quelli che compongono la specie umana. Come un geometra riguarda una figura particolare per dedurre le proprietà universali del triangolo, allo stesso modo, colui che sa amare dirige su un essere umano particolare un amore universale. Il consenso alla conservazione dell'auto­nomia in se stesso e nell'altro è per essenza qualcosa di universale. Dal momento che si desidera questa conservazione presso più di un solo essere, la si desidera presso tutti gli esseri» (Simone Weil, Attente de Dieu, 1977, cit. 205).

In tempi più recenti Michel Pochet, sottolineando l’unità e la differenza fra le diverse vocazioni all’amore cristiano, ha declinato la validità e i limiti di ciascuna scelta, sfuggendo così alla valutazione dell’amore a svantaggio della coppia: «Mi sembra che ci sono due dimensioni dell'amore che attirano profondamente anche in modo inconsapevole, ogni persona. L'amore “assoluto” e l'amore “universale”. Dio è capace di un amore assoluto, cioè di amare ogni persona come se fosse l'unica. Ma allo stesso tempo questo lo fa con tutti. Il suo è in senso pieno un amore contemporaneamente assoluto e universale […]. Da una parte un amore assoluto, la possibilità di amare con tutto il cuore, tutta la mente, tutte le forze, per sempre, fedelmente, un uomo o una donna nel matrimonio. Però il cuore umano ha in sé anche il desiderio di essere tutte le cose, di prendere dentro tutto, di amare tutti… altrimenti non sarebbe un amore veramente universale […]. La persona che sente questa doppia tensione può entrare in una crisi molto grave, perché si rende conto che non è possibile viverle tutte e due contemporaneamente. Gli esseri umani si sentono chiamati preferenzialmente all'una o all'altra strada. È una perdita per gli uni e per gli altri, perché vorremmo amare tutti in modo assoluto, ma non è possibile. Ognuno deve capire qual è la sua chiamata di fronte a queste due possibilità» (E. Cambon, Verginità e bellezza, intervista a Michel Pochet, in «Gen's», 4/5 (1996), 115-119).

Generare vita buona

Per tutti la capacità di essere fecondi e e di generare vita buona dipende dalla capacità di amare, e questa disposizione si realizza in modo diverso nelle diverse vocazioni. I fidanzati-sposi sono chiamati ad essere cesellatori raffinati delle relazioni affettive. L’attrazione amorosa si perfeziona nel tempo, rendendo la comunicazione con il\la compagno\a di viaggio sempre più fedele, tenera e profonda. La condivisione delle esigenze minime della vita di ogni giorno come dei grandi eventi insegna a non sottovalutare i momenti di difficoltà e conflitto, che se riciclati, perfezionano l’amore evitando il rischio di ridurlo ad abitudine, paternalismo, piacere, compagnoneria, buona educazione, predica.

La carezza, la complicità, il perdono, l’unione dei corpi generano il sorriso, leniscono la sofferenza, rigenerano la speranza, quasi trasmettendo la carezza stessa di Dio, che si fa in qualche modo presente, anche quando non viene esplicitamente invocato. Il linguaggio del corpo non è importante solo per gli sposi: «C’è bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana» (FT, 43).

«Essere fratelli tutti esige dagli sposi la convinzione di essere uniti perché figli dello stesso Padre, ma non fotocopie l’uno dell’altro; chiede di calibrare vicinanza e distanza, presenza vigile e capacità di ritirarsi quando si avverte che la propria presenza può essere invadente e ingombrante. Occorre imparare a ricostruire quell’equilibrio sempre instabile tra vicinanza e distanza, tra accondiscendenza e difesa della dignità, tra eccessi di silenzi e di parole, tra il rischio di sopraffare l’altro e quello di omologarsi a lui. 

La distanza tra l’io e il tu è segnata non solo dal corpo, dagli interessi, dalla sensibilità, dalle famiglie di origine, ma anche dalla vocazione unica di ciascuno, seguendo la quale ciascuno realizza pienamente se stesso e dà stabilità al matrimonio. La tentazione di dirigere l’altro, di volerlo bello, buono, uguale a sé è forte e prepara delusioni con conseguenze anche a livello di malattie psicosomatiche, come la depressione e la nevrosi.  Per essere fratelli tra gli sposi occorre il massimo rispetto dell’alterità dell’altro di fronte da amare con i suoi pregi e i difetti, accettando il suo potere di ‘rubare il tempo’, inquietare, contraddire, di ferire. Quel tu non è l’altro virtuale, da educare, da vincere, da bypassare furbescamente. È quello che è nella sua unicità: «Solo l’uomo che accetta di avvicinarsi alle altre persone nel loro stesso movimento, non per trattenerle nel proprio, ma per aiutarle a essere maggiormente se stesse, si fa realmente padre» (FT,4).

È prezioso l’impegno delle coppie a conoscere, rispettare e valorizzare i talenti e le propensioni specifiche dell’altro e proprie, in campo professionale, artistico, spirituale, contribuendo così al bene di ciascuno dei due, della coppia, dei figli e della società. L’amore non consente omologazioni: chi sentirà di dedicare le proprie energie all’arte, chi allo sport, alla solidarietà, all’ospitalità, alla ricerca, alla politica, chi vorrà impegnarsi nell’affido o nell’adozione, chi sarà totalmente assorbito dalla cura di un figlio diversamente abile o di un anziano terminale.

Il mondo vive della varietà dei suoi colori, di una bellezza plurale: «il futuro non è “monocromatico”, ma, se ne abbiamo il coraggio, è possibile guardarlo nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare» (FT 99). La famiglia umana ha bisogno di imparare a vivere insieme, accogliendo la diversità e trasformandola in armonia e pace.

 

Giulia Paola Di Nicola - Attilio Danese
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