Stampa questa pagina
Giovedì, 15 Luglio 2021 08:22

Migrazione generativa

Vota questo articolo
(0 Voti)

Nelle esperienze della migrazione e nei processi della mobilità l’immagine dei luoghi viene trasformata dalle persone che, osservando e reinterpretando la realtà, danno vita ad un nuovo ‘senso del luogo’. Il luogo non è solo lo sfondo delle azioni, ma luogo generativo di interrelazione tra i diversi attori. Sono luoghi di contatto, di confine, dov’è possibile sperimentare la differenza, l’alterità, l’incontro e generare una nuova socialità.

 

Nella letteratura migrante le descrizioni dei luoghi rivelano come sguardi di vecchi e nuovi residenti si intreccino e addirittura si sovrappongano, generando un nuovo senso del luogo. Da questi luoghi emergono la quotidianità e i cambiamenti di prospettiva dovuti proprio all’esperienza della migrazione: i migranti appartengono a più di una nazione, regione o Stato e costituiscono un vero e proprio ponte tra la cultura di origine e quella di approdo, modificano e rinnovano entrambe.

«Ecco perché amo tanto questo quartiere, perché mi riporta un po’ con i piedi nella mia Africa...lontano» (Jorge Canifa Alves, Itinerari, in Lo sguardo dell’alto, Mangrovie, 2008).

I luoghi come il treno, la stazione, il mercato, la strada diventano sempre più uno spazio aperto e flessibile, pronto ad accogliere e ad interagire con linguaggi, sistemi espressivi e identità diverse. I promotori degli spostamenti all’interno del tessuto urbano non sono solo gli autoctoni, ma anche gli immigrati, i quali essendo più visibili, perché più facilmente riconoscibili dal colore della pelle, dalla lingua o dalla religione, esercitano l’impatto più forte sulla vita sociale e contribuiscono a rigenerarla.

“L’arrivo di persone diverse, che provengono da un contesto vitale e culturale differente, si trasforma in un dono, perché «quelle dei migranti sono anche storie di incontro tra persone e tra culture: per le comunità e le società in cui arrivano sono una opportunità di arricchimento e di sviluppo umano integrale di tutti»”. (Papa Francesco, Enciclica Fratelli Tutti, Città del Vaticano, ottobre 2020, n 133).

Così gli immigrati, con la loro voce e la loro presenza, sono lo specchio di un nuovo contesto socio-culturale, sempre più polimorfo e in costante cambiamento.

 “La ricchezza culturale non deriva dalla purezza ma dalla mescolanza (Jacques Le Goff).

Tuttavia non è sempre facile abitare questi luoghi in cui spesso si intrecciano solitudine, indifferenza, esclusione. Ci si muove tra una moltitudine di gente, in un movimento continuo e dinamico alla ricerca di qualcuno a cui chiedere informazioni, nel bisogno disperato di comunicare la propria esistenza e di affermare il diritto di essere considerati uomini e donne con uno spirito, una mente, delle tradizioni, una cultura, una lingua diversa, esseri pensanti, creativi, generativi, e non solo manodopera.

Il rispetto dei diritti «è condizione preliminare per lo stesso sviluppo sociale ed economico di un Paese. Quando la dignità dell’uomo viene rispettata e i suoi diritti vengono riconosciuti e garantiti, fioriscono anche la creatività e l’intraprendenza e la personalità umana può dispiegare le sue molteplici iniziative a favore del bene comune» (Papa Francesco, Enciclica Fratelli Tutti, Città del Vaticano, ottobre 2020, n 22)

Nel messaggio per la 107ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato “Verso un noi sempre più grande”, Papa Francesco indica un chiaro orizzonte per intraprendere il comune cammino perché non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”: «Il futuro delle nostre società è un futuro ‘a colori’, arricchito dalla diversità e dalle relazioni interculturali. Per questo siamo chiamati ad imparare oggi a vivere insieme, in armonia e pace. Ma per raggiungere questo ideale è necessario impegnarci tutti per abbattere i muri che ci separano e costruire ponti che favoriscano la cultura dell’incontro, consapevoli dell’intima interconnessione che esiste tra noi. In questa prospettiva, le migrazioni contemporanee ci offrono l’opportunità di superare le nostre paure per lasciarci arricchire dalla diversità del dono di ciascuno. Allora, se lo vogliamo, possiamo trasformare le frontiere in luoghi privilegiati di incontro, dove può fiorire il miracolo di un noi sempre più grande».

 

La stazione

Nella vita dei migranti, la stazione occupa uno spazio privilegiato: essa rappresenta non soltanto il primo contatto dell’immigrato con la città, ma è anche un luogo dove gli stranieri si incontrano, si scambiano, si riposano, si nascondono. Le stazioni sono migranti, multiculturali, piene di vita a tutte le ore, segno evidente che il fenomeno migratorio è una situazione strutturale del contesto contemporaneo. La stazione è comunicazione, è narrazione dei tanti volti che ogni giorno la abitano. Nella stazione succede sempre qualcosa, anche quando apparentemente non succede nulla. È il luogo generativo dell’accoglienza, del confronto delle diversità e dello scambio. Qui si intrecciano volti migranti sempre in cerca di qualcuno o qualcosa. La vita, le vite che approdano rendono le stazioni vive. Arrivano dalla Siria, dall’Algeria, dalla Nigeria, dall’Egitto, dall’Etiopia, con le loro valigie piene di sogni e di storie, su cui ci si può fermare per ore, valutando motivi e cause di arrivi e partenze, di ricongiungimenti o di abbandoni, di fughe, di avventure, di vendite e di sfruttamento. I migranti si intrecciano e si incontrano lì, nelle stazioni. Tutti sono viaggiatori. In tutti i sensi. Si fanno incontri. Si passa inosservati. Si lasciano tracce oppure si cancellano. Bianchi. Neri. Gialli. Rossi. “Una persona e un popolo sono fecondi solo se sanno integrare creativamente dentro di sé l’apertura agli altri” (FT, 41).

Nella stazione non avvengono contatti veri e propri, però con il solo passaggio si assaporano delle realtà diverse, si aprono delle finestre su altri mondi, con culture e tradizioni differenti, e ci si mette in movimento per generare cambiamento, promuovendo educazione, vita e cultura.

 

Tutti, nessuno escluso.

Nel romanzo La mia casa è dove sono, (2010) Igiaba Scego, scrittrice nata in Italia da genitori somali, dedica un intero capitolo alla Stazione Termini di Roma. Laureata in Letteratura presso l’Università la Sapienza di Roma e ha conseguito un Dottorato in Pedagogia all’Università di Roma Tre. Roma Termini è la principale stazione ferroviaria dell’Urbe e la più grande d’Italia. […] Costruita sul colle Esquilino la stazione lavora a pieno ritmo dal 1864. L’edificio che vediamo oggi (con la facciata ad andamento orizzontale per cui la stazione è famosa) fu inaugurato solo nel 1950. La gente alla stazione corre. Si corre per un treno, per un bacio, per riabbracciare un caro appena arrivato. Nel suo raccontarsi c’è una relazione emozionale e personale con la stazione: “Qui si concentrano i sogni degli immigrati, i quali cominciano a considerarla di conseguenza come “casa propria”, oppure addirittura come una patria, benché caotica, luogo materno e accogliente, a volte inospitale e disumanizzante”. La stazione diventa lo schermo sul quale i migranti proiettano la patria sognata. Qui si fa la scelta di accogliere, si decide di essere persone che fanno della loro vita una “sala di accoglienza” dove tutti quelli che si incontrano si sentano a loro agio. Qui si tessono trame di condivisione e di cura della dignità di ciascuno, nella speranza di generare un mondo in cui tutti possano sentirsi a casa propria. Senza distinzione di alcun tipo. Tutti, nessuno escluso.

 

Gabriella Imperatore, FMA 
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Letto 575 volte