Tutti coloro che guardano verso il futuro sperano sempre in qualcosa o in qualcuno. L’uomo, infatti, non può vivere e progettare l’avvenire senza la speranza, senza questa dimensione del vivere protesa verso l’ignoto, verso l’inedito, verso ciò che non è ancora divenuto e che spinge all’esperienza del mistero che la realtà si porta dentro. Tuttavia, il futuro produce speranza quando lo si rende attivo nel presente, nel qui e ora; quando lo si rende affidabile, cioè generatore di fiducia.
Si comprende allora perché una delle cause più profonde del disagio giovanile si può rintracciare nella frustrazione dei giovani legata al sentimento di essere stati “derubati del futuro”. La crisi di futuro difatti genera la crisi di fiducia e di senso, perché questa “volontà di futuro” ricercato e atteso come una promessa si può trasformare in minaccia, a causa della paura per un domani imprevedibile di fronte al quale non ci si sente sufficientemente preparati. Da qui l’estrema difficoltà a confrontarsi con il concetto di speranza e quindi la tendenza ad arrendersi di fronte al bisogno di scrivere il proprio futuro.
Per tutto ciò, siamo noi adulti ad essere profondamente interpellati. Cosa pensiamo di consegnare alla presente generazione e alle generazioni che verranno se non «una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente» (Papa Francesco, Udienza 8-5-2024)?
Ai giovani assetati di futuro che affrontano la vita con un senso di entusiastica onnipotenza, mentre sono facilmente esposti al rischio di lasciarsi dominare dall’ansia, dalla disperazione più che dalla speranza, non mancano forse quei riferimenti valoriali e progettuali da cui dipende la nozione di futuro, che hanno alimentato le generazioni del passato?
Impressiona nei giovani della cosiddetta Generazione Z l’assenza di intenzionalità, la mancanza di una direzione che orienti l’esistenza o, per dirlo con le parole di V. Frankl, di quel “cemento che mantiene insieme una vita”. E ciò è un segno inequivocabile della mancanza di speranza che non si visibilizza più come ricerca di senso, come orientamento verso uno scopo, che non si esprime in una chiara intenzionalità, cioè nella capacità di trascendersi verso qualcosa o qualcuno degno di significato e di fiducia. L’aspirazione a una vita compiuta verso cui la speranza orienta la persona si realizza nel tempo, sviluppandosi e maturando attraverso l’incontro con l’altro.

La vera speranza è sempre “relazione a…”
La speranza si coltiva fondamentalmente dentro una relazione, dentro una condizione di fiducia e di riferimento a qualcuno o qualcosa verso cui tendere e dirigere i desideri e le aspirazioni più profonde. La speranza è un’attesa sostenuta dalla fiducia nei confronti di una promessa, di una domanda che la vita stessa ci pone e che attende una risposta. Ciò significa che la speranza non può essere vissuta in maniera autoreferenziale. Non si può sperare da soli. Perciò, non possono mancare i riferimenti di valore progettuali e comunitari.
L’essenza dell’esistenza umana consiste nella capacità di decentrarsi, di uscire da sé e di orientarsi verso l’altro. Come sosteneva V. Frankl, tra vivere e sperare c’è un legame radicale, perché quando viene meno la speranza la vita diventa insopportabile e vuota, senza una direzione che le dia un senso e una coerenza. «Essere-uomo vuol dire andare verso qualcosa al di là di se stesso, qualcosa che non è se stesso, qualcosa o qualcuno: un significato da realizzare, o un altro essere umano da incontrare nell’amore. Egli può realizzarsi solo nella misura in cui si dimentica».
La speranza considerata come il corrispondente fenomenologico del desiderio costituisce il motore della vita psichica. Quando nell’esperienza umana viene a mancare il desiderio e quindi l’attesa, la speranza si dissolve e allora affiora l’angoscia. In sociologia si parla di paura liquida, cioè di «una paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiari; la paura che ci perseguita senza una ragione, la minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente» (Z. Bauman).
Ecco perché, nell’attuale società ipercomplessa e ipertecnologica i giovani non trovano risposta ai loro bisogni e desideri più profondi: relazione, affettività, autostima, realizzazione di sé, ricerca di senso della vita. Ininterrottamente connessi alla rete essi soffrono di solitudine e non sanno come gestire nel concreto le relazioni con l’altro e gli altri, non sperimentano cosa voglia dire sentire l’altro e dunque se stessi, sì da sviluppare la responsabilità nei confronti di qualcuno o di qualcosa (un compito, uno scopo, una persona da amare e con cui ricongiungersi).
È nella relazione interpersonale che si costruisce quella base di fiducia connessa all’esperienza dell’essere-con e dell’incontro con l’altro. Difatti, nel suo percorso evolutivo la persona trova lo spazio e la forza di decidere di sé e del proprio avvenire in un ambiente in cui la qualità delle relazioni, quelle primarie, specie della coppia genitoriale, gettano le basi di quel senso di fiducia che si estenderà poi al rapporto più ampio tra l’Io e il mondo.

Sperare è affrontare il rischio di “fidarsi” oltre ogni paura
L’aumento di individualismo e di autoreferenzialità che connota le nostre società non favorisce il processo di fiducia, che ha un profondo valore ‘etico’ perchè scaturisce dalle relazioni interpersonali intrinsecamente costitutive dell’esistenza umana. Ma con l’emergere delle nuove paure sociali, l’acuirsi delle tensioni e delle ansie, il disorientamento e la tendenza alla chiusura sembra venir meno il senso autentico della fiducia e quindi della speranza.
Fidarsi o non fidarsi: una questione che si pone ogni giorno nelle interazioni con le persone e con la realtà. Del resto, noi non potremmo vivere senza fidarci. Come sostiene il sociologo G. Simmel, «senza la fiducia che le persone nutrono vicendevolmente, la società stessa si disintegrerebbe».
La fiducia è una realtà impalpabile eppure la si respira nell’ambiente, nelle relazioni interpersonali, riducendo così le inquietudini che conducono ad atteggiamenti di chiusura, rifiuto e scetticismo.
L’atto di fidarsi è un dono ma anche una scommessa, a motivo dell’imprevedibilità, del rischio che si annida in ogni relazione di essere soggetti a una possibile disillusione.
Fiducia e affidabilità
La fiducia interpersonale diventa possibile solo se si può contare sull’affidabilità. La reciproca affidabilità non si improvvisa. Ma si può anticipare mediante la condivisione, l’assunzione del dolore e della gioia dell’altro, tanto da fare l’esperienza di avere accanto qualcuno che mi può dare una mano, che mi sostiene e accompagna nel cammino della vita. Ciò comporta che la persona abbia maturato una dinamica relazionale fondata su delle aspettative in rapporto all’altro che si reggono su basi emotive, su legami affettivi d’amore o di amicizia, di mutua stima e simpatia, di reciprocità e comunanza di valori e di appartenenze. Dunque, l’atto fiduciario trova la sua forza motivazionale sull’affidabilità di relazioni umane dense di fiducia ma anche su dinamismi di speranza, che in un certo senso anticipano ciò che si desidera.
Ciò è evidente a livello evolutivo: la fiducia ha un rapporto molto stretto con la speranza. Erikson nel suo modello di sviluppo che si articola in otto fasi lungo tutto l’arco della vita, dall’infanzia alla vecchiaia, indica la speranza come la conseguenza del conflitto precoce tra fiducia e sfiducia nei primi mesi di vita e che poi dà un senso a tutta la parabola dell’esistenza. La speranza si radica nella persona solo se la fiducia prevale sulla sfiducia. Essa, cioè, è generata dall’esperienza di una relazione fiduciale, che rassicura il bambino attestando che la vita e il mondo sono realtà affidabili di cui non aver paura. La fiducia perciò è la virtù generativa della speranza che rende capaci di affrontare la vita e le sue avversità, perché fondata sull’esperienza di affidabilità, di sicurezza affettiva ed emotiva, percepita e vissuta nelle relazioni interpersonali e in un ambiente affettivamente ricco e positivo.
La fiducia è il collante che tiene unita la comunità umana
Su cosa si fonda la fiducia in sé e negli altri? La fiducia in se stessi nasce dalla fiducia negli altri, o meglio, da una fiducia ricevuta e accordata. Essa si basa sulla prevedibilità del comportamento altrui e sulla percezione di benevolenza e di stima nelle intenzioni degli altri. L’atto di fiducia comporta sempre il coinvolgimento non solo di chi dà fiducia ma anche di chi la riceve, che a sua volta deve dimostrare di essere degno della fiducia ricevuta. Tale esperienza relazionale che consente di poter contare su qualcuno di cui ci si può fidare, di sperimentare un’appartenenza originaria alla comunità umana, può permettere alle persone di sperare.
La speranza quindi è sostenuta, anzi generata, dalla fiducia, dalla ferma convinzione di poter riuscire a realizzare i propri desideri, le proprie speranze. Abbiamo bisogno di questa fiducia che ci accompagni soprattutto nella prova, nelle avversità della vita, quando l’incertezza, il timore prevalgono e la speranza muore, e con essa la volontà di futuro che viene bloccata. Potremo credere in noi stessi e nel nostro futuro se avremo avuto la fortuna di incontrare qualcuno che, per primo, crede in noi e nelle nostre potenzialità, accordandoci fiducia. Non è forse questo il compito essenziale di ogni educatore ed educatrice?