Trasmettere speranza agli adolescenti

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La speranza, come dice Papa Francesco, collabora con Dio a «far nuove tutte le cose». Contraddistingue chi non si arrende alla notte del male e non si accontenta di parole consolatorie ripetute a mo' di slogan.

In famiglia si apprende ad apprezzare le persone dal tratto mite che, pur nascoste ai grandi riflettori, sono ricche di buoni frutti e circondate da benevolenza e stima. È necessario un paziente e lungo lavoro educativo per aiutare i figli a filtrare nella confusa pluralità di valori quelli non effimeri e a confrontarsi con il prossimo per acquisire uno sguardo realistico, e perciò umile, sulla propria dotazione. Solo in un clima di affettività e di testimonianza coerente i genitori possono educare alla disidentificazione dell’io con i modelli vincenti, assumendo quasi un punto di vista esterno, distaccato da sé e altro, indispensabile a prevenire quei disturbi che emergono nell’adolescenza. La supponenza, l’intransigenza, l’orgoglio impediscono una visione realistica delle cose, snaturano il dialogo, fanno vivere ogni scacco della vita come un’insopportabile umiliazione, mettendo le premesse del disagio depressivo o aggressivo. La mitezza è indice di equilibrio interiore, di rispetto di sé e degli altri. Non disdegna la lotta quando è necessaria per raggiungere obiettivi ritenuti giusti, ma prende le distanze da reazioni aggressive o tentativi maldestri di imporsi.

I genitori spesso ripongono le loro speranze in figli che si dimostreranno geniali e spendono tutte le risorse possibili perché ciò si verifichi. Perciò incoraggiano l’assertiveness di chi è consapevole delle proprie capacità e persegue tenacemente i propri obiettivi. Le loro speranze sono ben riposte? In realtà sono anch’essi vittime di quella fascinazione dell’eccellenza che la cultura dominante valuta in base a dubbi parametri di quoziente intellettivo (QI), di successo e visibilità ad ogni costo. I mass media ingigantiscono tali modelli influendo sull’opinione pubblica e sugli adolescenti, che finiscono col considerare vincente chi è bravo a ‘vendere sé stesso’, esibirsi e usare furbescamente appoggi esterni.

Non è facile, per chi ha il compito di educare, aiutare ragazzi e ragazze a distaccarsi da quei modelli massmediali a cui istintivamente vorrebbero somigliare e che promettono a basso prezzo i premi più ambiti. Neanche è facile individuare il discrimen tra i due opposti del senso di nullità/insufficienza e l’ambizione di onnipotenza, estremi entrambi deleteri per la persona e la società, perché alimentano disagio.

Nelle relazioni interpersonali, tuttavia, tali vincenti risultano anche supponenti e faticano a stabilire rapporti significativi. Mancano del fascino delle figure empatiche che diffondono fiducia e speranza. Chi rifugge da esibizionismi e strombazzamenti si fa spazio a fatica e più lentamente nella società, ma, prima o poi, finisce con l’essere circondato da un’aura di benevolenza che mancherebbe se si presentasse con supponenza e orgoglio.

Benché i buoni educatori e i parroci nelle prediche esaltino questa virtù, nella vita sociale e lavorativa sono in pochi a viverla e conseguentemente farla apprezzare. Occorrerebbe la consapevolezza di avere sempre da apprendere, di essere limitati e imperfetti e dunque di voler sinceramente ascoltare e apprendere dagli altri, in una parola essere umili. Sul piano morale e mistico l’umiltà gode di grande considerazione, ma su quello sociale viene percepita come un atteggiamento “terra terra”, dimesso, debole, che preannuncia sottomissione. Se è in disuso, è perché l’umiltà viene scambiata con l’invito ad abbassare la testa davanti a chiunque e a pretendere che qualcuno abbassi la testa in propria presenza. Si tratta di una distorsione, un fraintendimento di significato che porta a considerare umile una modalità esistenziale di costante arrendevolezza e passività alle imposizioni, la costruzione superba di un io illusorio, il misconoscimento delle proprie fragilità. Si comprende bene che una tale disposizione è proprio ciò che nessun genitore vorrebbe per i suoi figli. Infatti, i genitori sono particolarmente orgogliosi di esaltare l’eccellenza dei propri figli, nei quali vedono riflesso il loro valore. Si tratta della naturale aspirazione a vederli affermare sé stessi e dunque a potenziare lo spirito combattivo che impedisca che essi vengano sottovalutati. Non vorrebbero un figlio ‘umile’ perché arrendevole e bullizzabile. Temono i contesti sociali in cui la mitezza viene scambiata per debolezza e offre il fianco ai prepotenti.

Gli stessi ragazzi e ragazze si domandano: Come mai troppe persone spacciano per umiltà una sorta di orgoglio camuffato? Ha senso insistere sulla umiltà se produce effetti frustranti nel gruppo dei pari e nella società? Ogni forzatura impositiva viene percepita come una frustrazione indebita di quell’aspirazione alla felicità e all’ego-sintonia a cui aspira l’essere umano. Un comportamento franco viene preferito all’ipocrisia di chi si sminuisce aspettandosi qualche lode.

In famiglia dove si conoscono pregi e difetti di ognuno, è naturale e giusto che si voglia vedere apprezzato il proprio valore, i risultati positivi del proprio operato, i progressi negli studi e nella carriera. Nello stesso tempo, un sano sentimento di umiltà disegna il proprio posto nella comunità familiare, rispettando e valorizzando le risorse specifiche di ciascun componente. Accade più spesso che i genitori esagerino nella sopravvalutazione dei figli e li incitino ad essere orgogliosi di sé, a imporsi e farsi rispettare, a primeggiare comunque nella scuola, nei giochi, nello sport. Non si trovano facilmente genitori che aiutino a far spazio agli altri, a contrastare le punte di invidia, a riconoscere i talenti altrui e sperare che essi vengano ben usati e apertamente riconosciuti. Nel confronto con i propri cari, s’impara a studiare sé stessi, far fronte alle sconfitte, accettare i rimproveri, valorizzare le risorse altrui, chiedere aiuto, condividere successi e riconoscere che nessuno è perfetto, neanche i genitori: “tutti hanno da imparare da tutti”.

Un’umiltà bene intesa non incoraggia la bassa autostima e la mancanza di fiducia in sé stessi e nel prossimo. Si abbina piuttosto alla dignitosa e grata conoscenza di risorse e limiti, senza amplificarli o sminuirli, senza complessi di inferiorità o superiorità, in modo da relazionarsi con quella serenità interiore che non ha bisogno di spacconerie per affermarsi. Mamma e papà dovrebbero essere i primi testimoni di questa umiltà nutrita di speranza. Lo sono quando sbagliano e sanno chiedere scusa, quando accettano i rimproveri reciproci e anche quelli dei figli, quando tornando a casa dopo qualche fallimento nell’ambito lavorativo, non si disperano ma con l’aiuto di tutti si dispongono a ricominciare. Un papà che si mostra come un Rambo vincente e vuole apparire agli occhi dei figli un eroe da fumetti, non trasmetterà certo l’immagine di una persona mansueta o, per dirla col Vangelo ‘mite e umile di cuore’ (Mt 11,28-30). Una mamma che tratta male la collaboratrice domestica, difende apoditticamente le sue idee, sfoggia le sue qualità, difende a oltranza i figli o li opprime con rimproveri, non trasmetterà certo fiducia nella speranza che si possa cambiare.

L’umiltà non può essere imposta dall’esterno; è un modo di essere della persona. Richiede di lavorare sul pilastro della mitezza evitando di far credere ai figli che sono “speciali”, che subiscono dei torti da professori o compagni se non vengono esaltati. Diversamente come potranno nel corso della vita affrontare eventi che inesorabilmente e con frequenza li pongono di fronte alle fragilità, ai conflitti, agli scacchi delle amicizie e degli affetti? Come potranno stare vicini agli umiliati, così bisognosi di semi di speranza, perché costretti a convivere con la debolezza, l’impotenza, il fallimento delle ambizioni, la sofferenza di patologie e disabilità che limitano l’autonomia personale (Spes non confundit, 12)?

Una persona adulta, se ha appreso in famiglia ad essere umile, non sente il bisogno di magnificare sé stessa e sminuire gli altri, non pubblicizza i propri meriti, accetta di essere contestata, mette in questione ciò che fa e dice, affronta senza disperare le avversità esistenziali perché più preparata a prenderle su di sé, a sopportarle e pazientemente lavorare per superarle. La speranza che le cose vadano meglio, che sia possibile rivedere il sole dopo la notte si accompagna all’umiltà di accettare gli smacchi della vita. Al contrario, se priva di umiltà, sorvolerà sulle proprie carenze, crederà di essere in grado di affrontare ogni ostacolo e si scontrerà con essi in modo frontale e alla fine perdente.

Il cammino dell’umiltà può essere presentato come attrattivo senza la necessità di imposizioni e punizioni, se la si impara semplicemente dalle umiliazioni che la vita riserva a tutti. Secondo Papa Francesco “L’umiltà vuol dire anzitutto accettare le umiliazioni senza difendersi, come ha fatto il ‘grande umiliato’ Gesù”. Ovvero: “Non c’è umiltà senza umiliazione1.

  1. Papa Francesco, Meditazione mattutina, cappella Domus Sanctae Marthae, 7 febbraio 2020. ↩︎

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