Quando la speranza è “oscena”
Se Ken Loach, a 87 anni, torna dietro la macchina da presa, affiancato dal fedele sceneggiatore Paul Laverty, sappiamo di doverci preparare a un cinema di spessore, che guarda dritto nelle pieghe più scomode della nostra società. Con The Old Oak, il regista britannico ci consegna un’opera che esplora la fatica del restare umani.
Lingua originale: inglese
Genere: drammatico
Anno: 2023
Regia: Ken Loach
Paese di produzione: Regno Unito, Francia, Belgio
Produzione: BBC Film (et al.)
Interpreti: Dave Turner, Ebla Mari
Durata: 113 minuti
Trailer ufficiale: YouTube

Ci troviamo in una cittadina senza nome del nord dell’Inghilterra, un tempo cuore pulsante dell’industria mineraria, oggi segnata dalle cicatrici della deindustrializzazione e dell’impoverimento. La scelta di non specificare il luogo è voluta: quella che Loach e Laverty mettono in scena è la storia emblematica di tante comunità dimenticate, dove il tessuto sociale si è logorato e la sfiducia serpeggia. In questo contesto carico di tensione, l’arrivo di un gruppo di rifugiati siriani, famiglie in fuga dagli orrori della guerra, funge da catalizzatore, scatenando aperta ostilità in una parte della popolazione locale.
È qui che entra in scena TJ Ballantyne (Dave Turner), proprietario dell’ultimo pub del paese, “The Old Oak”, simbolo stesso di una comunità che resta aggrappata al passato. All’inizio, TJ ci appare come un uomo stanco, segnato dalle delusioni della vita, forse un po’ spento e rassegnato al declino. Eppure, sotto questa scorza, sopravvive un animo fondamentalmente buono, una gentilezza che si manifesta in gesti spontanei, privi di un’intenzione morale. Lo vediamo aiutare con naturalezza Yara (Ebla Mari), giovane rifugiata siriana appassionata di fotografia, quando la sua preziosa macchina fotografica viene danneggiata dal primo violento atto di intolleranza. TJ non giudica, osserva, e sembra soffrire in silenzio vedendo ripetersi dinamiche di esclusione.
Dall’altra parte, ci sono quegli abitanti locali che, intrappolati nella propria frustrazione e nel dolore per un passato idealizzato e perduto, manifestano diffidenza e rancore. Le loro frasi sono intrise di possessivi: «le nostre case», «il nostro villaggio» e addirittura «il nostro pub». È la solita storia del “noi contro loro”, un esempio del bias cognitivo dell’ingroup/outgroup – quella dinamica psicologica che porta a favorire il proprio gruppo e a diffidare degli esterni – una retorica fin troppo spesso cinicamente sfruttata, soprattutto dalla politica, per seminare divisione, distogliere l’attenzione dai veri responsabili del declino e trovare facili capri espiatori. Come osserva acutamente Yara in un frangente: «Cerchiamo sempre un capro espiatorio quando le cose vanno male».

Ma The Old Oak non si limita a dipingere questo quadro sconfortante di divisione. Proprio nel momento in cui il dolore sembra soffocare ogni speranza, un moto quasi improvviso, nato forse da un bisogno viscerale di non arrendersi, porta TJ a una scelta inattesa. Germoglia così l’idea di trasformare la sala sul retro del pub, uno spazio abbandonato carico di memorie minerarie e di lotte passate, in un luogo dove tutti, locali e nuovi arrivati, possano «incontrarsi, sedere e mangiare insieme». Non è beneficenza, sottolinea TJ: «Qui siamo noi che facciamo qualcosa insieme… voglio che sia stabile».
Il film non edulcora la realtà, mostrando tutta la fatica di questo percorso. Loach non ci risparmia nulla: vediamo, ad esempio, TJ confrontarsi con l’aberrante crudeltà dei messaggi sui social, scoprendo come quello spazio “virtuale” sia, in realtà, un’arena dove il veleno e la cattiveria hanno conseguenze tangibili e reali. Vediamo quel cinismo che rischia di diventare norma («“Non dire nulla, pensa ai fatti tuoi”: questo hanno imparato qui», riflette amaramente TJ). È solo dopo aver sbattuto contro muri di ostilità e incomprensione, sentendosi inutile di fronte al fallimento dei suoi sforzi, che TJ si lascia andare a uno sfogo amaro: «Ho passato una vita intera a tentare e non ce l’ho mai fatta… era solo un auto-illudersi (…). Metà della nazione è marcia, ma invece sai chi c’è riuscito? È stato l’odio, le bugie, la corruzione. Senti la puzza da lontano».
È proprio in questi momenti di sconforto che emerge la forza della speranza, incarnata dalle parole di Yara durante un dialogo con TJ: «Ci vuole forza per sperare, ma loro vogliono spezzarla. Ci vuole fede per sperare». E ancora: «Ho un’amica che chiama la speranza “oscena”. Forse ha ragione, ma se smetto di sperare, il mio cuore smette di battere».

TJ Ballantyne è l’antieroe perfetto: un uomo comune, uno come tanti, da cui nemmeno lui stesso si aspetta più molto. Eppure, proprio lui, guidato dalla sua umanità, scopre di poter ancora incidere sulla realtà. Il suo fare la differenza non risiede in atti eroici, ma nella sua autenticità, nell’offrire uno spazio fisico ed emotivo per l’incontro, nello scegliere l’empatia laddove prevalgono il sospetto e la chiusura. Il film dimostra magnificamente che la capacità di cambiare in piccolo il corso degli eventi non appartiene a figure eccezionali, ma a chiunque decida di agire e non arrendersi al senso di impotenza. Persino Marra, il cagnolino di TJ, con la sua semplice esistenza ha un impatto sullo sviluppo della storia e sulle scelte dei personaggi.
È importante anche un altro aspetto che il film suggerisce, quasi sussurra: non tutti sono ostili. Spesso, le voci dell’intolleranza sono quelle di minoranze rumorose, che riescono a sovrastare il silenzio o il timore di chi, invece, desidererebbe altro.
La regia di Loach è quella di un maestro: sa cosa è necessario mostrare e cosa è più potente lasciare intuire, unendo la crudezza del reale a una poetica di fondo che non abbandona mai i suoi personaggi. The Old Oak è un film che resta addosso e ci ricorda che fare la differenza richiede impegno, fatica e, soprattutto, la volontà di riconoscere nell’altro un compagno di viaggio. Un’opera che, senza retorica, illustra perfettamente come la speranza sia davvero un cammino, spesso impervio, da percorrere insieme.