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Lunedì, 01 Novembre 2021 14:32

La regina degli scacchi

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L'orfana di otto anni Beth Harmon è tranquilla, cupa. Almeno finché non gioca la sua prima partita a scacchi. I suoi sensi diventano più acuti, il suo pensiero più chiaro e, per la prima volta, nella sua vita sente completamente tutto sotto controllo. All'età di sedici anni gareggia per il campionato US Open. Ma man mano che Beth affina le sue abilità nel circuito professionale, la posta in gioco diventa più alta, il suo isolamento diventa più spaventoso e il pensiero della fuga diventa ancora più allettante.

 

Elizabeth Harmon, La regina degli scacchi della omonima serie Netflix, nasce dal romanzo The Queen’s gambit di Walter Travis (1983). La regina degli scacchi è il ritratto di una ragazza prodigio che riesce a riscattarsi da una dolorosa storia d’abbandono, affermandosi grazie al suo formidabile talento per gli scacchi, ma anche quello di un’orfana che fatica nello stabilire relazioni interpersonali e fa i conti anche con la dipendenza da alcool e tranquillanti.

La piccola Beth, diventata orfana a causa della madre suicida, viene accolta in un orfanotrofio, dove un’impeccabile istitutrice educa le sue ospiti a comportarsi bene a suon di vitamine e «pillole che regolano l’umore». Inizia in modo dickensiano il romanzo di formazione di Elizabeth Harmon, che dagli anni del collegio arriva ad avere un successo planetario, grazie alla sua abilità nel gioco degli scacchi, insegnatole dal custode Shaibel.

Il fascino della serie Netflix, in sette episodi da un’ora e pochi minuti ciascuno, si rivela nella capacità di utilizzare la narrazione, la  macro-storia di Elizabeth e le micro-storie che le ruotano attorno, per evocare una femminilità così ambiziosa e altrettanto ambivalente. Elizabeth è una donna, genio degli scacchi, che oltre ai vari e folgoranti successi ha mostrato anche le sue debolezze: come la dipendenza dall’alcool.

Storia di empowerment

Ambientata tra gli anni 50′ e ’60 del Novecento, negli Stati Uniti d’America, La regina di scacchi è una storia di empowerment, soprattutto una storia di femminilità plurale all’interno di uno stesso soggetto femminile – appunto, quello di Beth – e plurale nel dispiegarsi di relazioni di sororità, nel rapporto tra Beth e Jolene, due orfane che sospendono, nell’attesa di essere adottate, la loro educazione affettiva accumulando una rabbia che ciascuna esprimerà diversamente, nel modo particolare di flettersi e anchilosarsi, e, ugualmente, nel rapporto tra Beth e la madre adottiva, Alma, una donna soffocata nelle aspirazioni da grammatiche borghesi interiorizzate e da ordinarie avventure coniugali.

Un aspetto interessante de La regina di scacchi è l’introspezione psicologica della protagonista. Beth appare, per la prima volta, una bambina e, durante tutta la serie, si segue il suo percorso di crescita. È incredibile vedere come una ragazzina timida ed introversa si trasformi in una campionessa capace di tenere testa a temibili avversari, uscendo vincitrice in un mondo di soli uomini.

Più incredibile è come gli attori siano riusciti ad interpretarne ogni aspetto della sua personalità. Beth non è solo una mente brillante, è anche una ragazzina rimasta sola, che ha vissuto per anni in un orfanotrofio lontana e fuori dal mondo. L’adozione non è solo una seconda chance, significa anche affrontare la realtà, al di là di quelle mura, in cui ha sempre vissuto. Beth vive, da un lato, continui incontri con scacchisti sempre più esperti e più grandi di lei, dall’altro la battaglia contro le dipendenze e la vita sfrenata, che mettono in evidenza i traumi subiti da bambina.

Beth è una donna coraggiosa che non ha timore nell’usare la sua intelligenza e il suo talento, soprattutto trovandosi in un ambiente maschile come quello degli scacchi. È così che Beth, di sfida in sfida, riesce a svelare il lato accattivante degli scacchi, un gioco di certo non spettacolare, ma forte di un incredibile coinvolgimento della sfera psicologica.

Narratività ed estetica

Dal punto di vista tecnico la serie rende gli scacchi non solo un gioco spettacolare, come ad esempio il calcio, ma basa tutto l’agire sull’intelletto del giocatore e la sua abilità nello scegliere la mossa giusta. Il Regista è riuscito a trasformare il gioco degli scacchi in un momento di grande tensione grazie anche ad ottimi spunti di regia. Pur non conoscendo le regole, qualunque spettatore riesce a capire l’andamento della partita attraverso un gioco di sguardi tra i personaggi. La tensione è amplificata dall’inserimento della colonna sonora, talvolta fatta di musiche, altre volte dal semplice ticchettio dell’orologio che segnala lo scorrere del tempo.

Scott Franck, sceneggiatore e regista, sa come coniugare narratività ed estetica, come unire storytelling e sensorialità, e il successo è, ne La regina degli scacchi, duplice perché viene appagato il desiderio di ascoltare storie e appagato il desiderio di bellezza. Le soluzioni drammaturgiche sempre varie riescono a fondere racconto e rappresentazione, rendendo avvincenti soprattutto le partite di scacchi, le estenuanti competizioni che si consumano nell’intuizione di una successione di mosse e si risolvono, spesso, grazie a un inatteso colpo di scena, una fantasia improvvisa, percorsi segreti, cunicoli del pensiero in cui placare gli affanni del cuore, con cui colmare le mancanze d’amore. Utilizzando zoom, primi piani e persino lo split screen (schermo diviso), Scott Frank dà vita a momenti emozionanti che tengono sulle spine.

La serie ha un’aria scura, grigia, che enfatizza i momenti in cui Beth tocca il fondo, così come i suoi più grandi successi, ma restando sempre su un tono malinconico.

La regina degli scacchi è una love story: la passione corrisposta tra una bambina ferita e la sua scacchiera.

 

Andrea Petralia 
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